
Vi propongo un intervento di Carla Ravaioli su Liberazione di oggi; l'articolo mi sembra molto interessante sia per l'analisi, sia per le responsabilità che individua, sia per le soluzioni che propone.
«Certo, l'economia, in quanto
disciplina autonoma, è nata come scienza del capitale; e tale è sostanzialmente
rimasta…». Così, più di vent'anni or sono, Claudio Napoleoni rispose a una mia
domanda che per un attimo lo aveva lasciato perplesso: «Esiste un'economia di
sinistra?».
Quella risposta fu per me un'illuminazione, che ha continuato a chiarirmi molte
cose della politica delle sinistre, alle quali, pur senza mai essere iscritta a
nessun partito, ho sempre fatto riferimento e dato il mio voto. Anche quando,
in Italia e non solo, le sinistre avevano solida consistenza e autorevolezza,
nel concreto del loro operare mi pareva infatti di avvertire una critica troppo
blanda, episodica e parziale, verso il capitalismo, il nemico storico contro il
quale erano nate e che ancora affermavano di combattere. La sensazione è andata
poi accentuandosi via via che il capitalismo andava trionfando in tutto il
mondo, e (fatte salve le rituali quanto sacrosante accuse di crescente
sfruttamento del lavoro, di sempre più pesanti disuguaglianze, ecc.) la lotta
contro di esso andava ormai riducendosi a una serie di tentativi, parziali e
separati, di emendare un sistema con tutta evidenza sempre meno emendabile. Mai
(mi pareva) si tentava una critica organica alla gran macchina dell'economia
capitalistica nella sua interezza.
Né, a quanto ne so, mai ha avuto luogo un'impegnata analisi di quel
"cambio di fase" che si produsse nel trentennio dell'immediato
dopoguerra, in cui l'espansionismo del capitale si orientò verso le masse
lavoratrici come bacino di utenza adeguato a quella gigantesca dilatazione dei
consumi che presto si sarebbe imposta come decisiva dimensione culturale
dell'umanità; ciò che d'altronde per un periodo non breve ha certo notevolmente
migliorato le condizioni delle popolazioni industrializzate.
Così che, mentre la "rivoluzione" ancora rimaneva l'obiettivo ultimo
della lotta, la politica quotidiana (impegnata in quelle rivendicazioni -
salari, orari, pensioni, assistenza sanitaria, ecc. - che furono base dello
"stato sociale") di fatto si limitava un'operazione riformistica. Si
combatteva contro il capitalismo per obiettivi immediati di maggiore giustizia,
ma non per la rimessa in causa della sua logica, basata sull'accumulazione di
plusvalore, cioè su una crescente produzione di ricchezza della quale prima o
dopo (si prometteva) tutti avrebbero potuto godere. E ciò andava creando una
sorta di dipendenza psicologica nei confronti dello stesso sistema che si
affermava di voler abbattere, e alla fine l'adesione al paradigma ideologico
industrialista, che dà la crescita produttiva quale strumento necessario
garantire il benessere collettivo.
Già nei primi anni Novanta si verificarono però dei fatti che avrebbero dovuto
far suonare più d'un campanello d'allarme . Mentre in tutto il mondo, dopo
alcune più o meno piccole crisi, l'economia aveva ripreso a marciare a pieno
ritmo, dovunque l'occupazione andava diminuendo. Per la prima volta veniva meno
quella regola, per due secoli indiscussa, che aveva garantito il lavoro a
traino della produzione. Accadeva cioè qualcosa che (mentre di nuovo già si
allargava il divario tra ricchi e poveri) avrebbe dovuto aprire seri
interrogativi sulle politiche delle sinistre, e sulle ragioni per cui i
movimenti operai, certo senza mai dichiararlo, avevano in realtà fatto propri
non pochi valori e certezze del capitalismo. Avrebbero insomma dovuto aprirsi
dubbi sulla totale positività della crescita, ormai impostasi come una verità
di fede. Tanto più che, in modi sempre più allarmanti, e con dati sempre meno
discutibili, la scienza andava richiamando l'attenzione del mondo sul crescente
squilibrio degli ecosistemi, e ne indicava le cause in uno sfruttamento delle
risorse naturali fortemente superiore alla loro capacità di autorigenerazione:
nella crescita cioè, nell'accumulazione capitalistica.
Molte riflessioni avrebbero potuto insomma aver luogo, prima che da un lato la
crisi ecologica toccasse livelli di pericolosità da molti ritenuti irreversibili,
e dall'altro si avviasse e rovinosamente avanzasse nel mondo globalizzato quel
processo di sempre più duro attacco al lavoro che Serge Halimi ha chiamato
"Il grande balzo all'indietro". Forse (magari con l'ausilio di
profetiche letture della realtà firmate da osservatori politici quali Gorz,
Wallerstein, Chomsky) ciò sarebbe stato possibile anche prima che la crisi del
capitale clamorosamente esplodesse. E prima che la divaricazione tra ricchi e
poveri toccasse vertici quasi surreali nei dati più recenti, secondo cui l'1%
della popolazione del mondo possiede il 50% della ricchezza.
Nulla di tutto ciò è accaduto. E ora? Ora, non risolto ma in qualche misura
contenuto ad opera di pubblico intervento lo tsunami finanziario, mentre ancora
pericolosamente continua l'altalena delle borse, e nessuno dubita più della
recessione prossima ventura, anzi già in atto, ora da ogni parte, con rinnovato
empito, si invoca ripresa, rilancio produttivo, insomma crescita, Pil. Con
qualche novità però. Dopo un periodo in cui la crisi economica aveva totalmente
oscurato le tematiche ambientali, oggi di ambiente si parla molto, ma per
motivi e in modi che con una effettiva salvaguardia degli ecosistemi ha davvero
poco a che fare. Da Merkel, a Obama, a Sarkozy, a Veltroni, a più di un
esponente sindacale, tutti parlano con entusiasmo di energie rinnovabili e di
"business verde" nelle sue forme più diverse, pensando a una forte
ripresa produttiva che potrebbe seguire al loro impiego su vasta scala, dunque
con deciso rilancio dell'organizzazione economica attuale, cioè sulla la causa
prima dello squilibrio degli ecosistemi.
D'altronde in perfetta coerenza con un passato in cui politica e economia, dopo
aver a lungo ignorato il rischio ecologico, ha iniziato ad occuparsene solo di
fronte all'allarme di un prossimo esaurimento del petrolio, polarizzando poi
l'attenzione su effetto serra e mutamenti climatici, in gran parte generati
dall'uso dei carburanti tradizionali; per puntare infine sulle energie
rinnovabili quale certa salvezza del pianeta. Del tutto ignorando quella
miriade di altri guasti (crescente mancanza di acqua potabile,
desertificazione, scomparsa di migliaia di specie viventi, gigantesco accumulo
di rifiuti, tossicità diffusa dovuta a pesticidi e materiali chimici di uso
comune, malformazioni e tumori che si moltiplicano, ecc.), problemi di diversa
gravità, ma tutti parte decisiva di quel problema enorme che riguarda la stessa
nostra sopravvivenza.
A questo modo, da parte dei potenti, della più vasta informazione che sempre
delle posizioni dei potenti risente, e anche di non pochi ambientalisti
sinceramente impegnati, si è posta in essere una sorta di operazione riduttiva,
tendente a ignorare la molteplice realtà della crisi ecologica, per
identificarla con il mutamento del clima (certo la sua manifestazione più
vistosa e carica di rischi, ma non l'unica) e la sua soluzione con le energie
rinnovabili. Prospettando così un possibile futuro libero da inquinamenti e
scarsità energetica, in cui non esistano più limiti a produzione e circolazione
di auto, moto, aerei, ecc. né alla moltiplicazione di consumi di ogni tipo.
Nessuno di quanti hanno pubbliche responsabilità sembra sospettare l'esistenza
di un nesso tra crisi economica e crisi ecologica. Ciò che viceversa molte e
autorevoli voci rilevano, d'altronde largamente riprese dalla stampa mondiale.
Ne cito solo alcune, che riconducono ambedue le crisi a una sola causa: la
crescita del prodotto. Il primo a dirlo era stato André Gorz ( Entropia N.2,
2007) a pochi mesi dalla morte. E lo affermano George Mombiot (con ripetuti
interventi sul Guardian ), l'economista indiano Prem Shankar Jha ( il manifesto
), il biologo Edward O. Wilson ( Il Sole 24 Ore ), il filosofo Paul Virilio (
Le Monde ), l'antropologo Jared Diamond con il suo celebre libro Collasso
(Einaudi). Tutti si dicono convinti che la Terra è troppo piccola per la velocità assunta
dalla storia; che il futuro di tutti noi è condizionato dalla realtà ecologica,
che cioè «in un mondo finito è necessaria una riduzione drastica del prodotto».
Tutti costoro sono inoltre convinti che, essendo l'economia capitalistica la
causa dello squilibrio planetario, sia impossibile trovare soluzione entro la
logica e le regole del capitale. Dello stesso parere si sono recentemente
dichiarati anche: il filosofo sloveno Slavoj Zizek ( N.Y.Times ); l'economista
Immanuel Wallerstein ( Liberazione ); un'ampia "Rete di intellettuali e
artisti sudamericani", che a partire da questa convinzione firmano un
complesso Appello, dopo un convegno svoltosi di recente a Caracas; perfino
Gorbaciov il quale dichiara senza mezzi termini che «il neoliberismo ha fallito
in ogni senso» ( La Stampa
). Sono tutte opinioni innegabilmente "di sinistra", ma tutte
espresse a titolo personale, da osservatori che non fanno riferimento a
organismi politici. E i partiti, le sinistre organizzate, come si pongono?
Per limitarci alla situazione italiana, occorre dire che da qualche tempo si
notano dichiarazioni esplicitamente e duramente anticapitaliste firmate da
personaggi di rilievo di Prc. Faccio un paio di esempi. E' lo stesso segretario
Ferrero a scrivere su questo giornale: «Noi ci battiamo per il superamento del
capitalismo» (2 novembre); «Il capitalismo sta diventando, palesemente, il
maggior nemico dell'umanità» scrive a sua volta Rina Gagliardi (4 novembre).
Sono però affermazioni di solito non corredate da indicazioni operative
conseguenti. Combattere il precariato, aumentare i salari, tassare i redditi
più alti, potenziare i servizi, difendere il diritto a scuola e ricerca, sono
in genere i provvedimenti auspicati: tutti condivisibili, certo, ma che non
vanno oltre le politiche di sempre, senza affrontare l'eccezionalità della
situazione.
E anche proposte capaci di una valenza decisamente rivoluzionaria, come la
«riconversione ambientale e sociale dell'economia», auspicata da Ferrero (
Liberazione 5 novembre), rimane appunto un auspicio, se non è debitamente
elaborata e pianificata in un programma organico. Cosa di cui non si ha
notizia. Anche le sinistre estreme, non solo in Italia, in genere esprimono il
proprio impegno ambientale soprattutto nella battaglia contro i "mutamenti
climatici" mediante energie rinnovabili (una linea, come dicevo, fatta
propria dalla grande industria per la continuità e il rilancio della crescita),
oppure si battono per la difesa dell'acqua, per il trattamento razionale dei
rifiuti, contro opere pubbliche indifendibili come la Tav, il Ponte sullo Stretto,
ecc: tutte attività in sé utilissime, ma ben difficilmente capaci di risolvere
un problema quale quello che ci troviamo a confrontare.
Nessuna sinistra, a quanto ne so, sembra orientata ad assumere lo squilibrio
ecologico come materia base di un impegno totale, nella cognizione piena di
tutte le problematiche che ne sono parte, in una libera lettura della radicale
trasformazione prodottasi negli ultimi decenni nel mondo; insomma di tutte le
verità alle quali non può non fare riferimento ogni programma politico nella
sua interezza e in ogni singola scelta. Tra discussioni per la difesa dei simboli
e delle identità storiche, tra scissioni già in atto o minacciate, richieste di
nuovi congressi (tutte cose, confesso, che non mi appassionano affatto, che
trovo anzi dispersive e pericolose) è nata recentemente un'Associazione, di cui
chiunque, abbia o no una tessera in tasca, può essere parte. Mi illudo se penso
che questo potrebbe essere un organismo in grado di impegnarsi seriamente a
ripensare la società e l'economia, per il superamento di una realtà costruita
sullo sfruttamento sempre più duro del lavoro e la distruzione sempre più
insensata della natura? Insomma per una rottura definitiva tra sinistre e
capitale?
Forse no, se questo nuovo soggetto politico sarà capace di muovere da una piena
consapevolezza del mutamento oggi in atto, assumendolo in tutta la
sua radicale, eversiva portata: in cui "il capitalismo ha aderito come una
seconda pelle all'antropologia del post-moderno", e in questo processo
perfino «la lotta di classe, il lavoro come principio di significazione
sociale, la religione civile dell'antifascismo (…) tutto è entrato in una sorta
di centrifuga storica, la memoria si è mutata in fiction e caos pubblicitario»,
come scrive Nichi Vendola ( Liberazione 16 novembre). E Nichi Vendola è appunto
uno dei promotori della nuova Associazione.